Una ragazzo di 33 anni, Emanuel Scalabrin, con precedenti per spaccio e tossicodipendente, dopo un arresto contrastato avvenuto il pomeriggio del 4 dicembre, nella tarda mattinata del 5 dicembre viene trovato morto nella cella di sicurezza dei carabinieri di Albenga.
La procura di Savona che ha aperto un’inchiesta dovrà stabilire se si sia trattato di una triste vicenda o di una brutta vicenda.
La prima ipotesi è la tragedia di una famiglia (aveva una moglie un figlio di 9 anni) senza responsabilità di altre persone. La seconda ipotesi è assai più complicata perché potrebbe portare a contestare responsabilità ai carabinieri che lo avevano arrestato e che ne dovevano garantire l’integrità fisica. Gli scenari eventuali in questo secondo caso si biforcano: percosse o pressioni su organi vitali, oppure omissione di soccorso.
Ubaldo Pelosi procuratore capo di Savona spiega: “Stiamo aspettando il responso dell’autopsia ma il medico legale ci ha informati che almeno a prima vista non ci sarebbero segni sospetti”. Emanuel presentava un labbro gonfio e un’ecchimosi ma, almeno a quanto trapela al momento, non ci sarebbero elementi che facciano pensare a un pestaggio. Meno limpida appare invece la tempistica relativa all’allarme delle sue condizioni e ai soccorsi.
Sul fronte dei famigliari – che si sono affidati allo studio dell’avvocato Maria Gabriella Branca e agli avvocati Lucrezia Novaro e Giovanni Sanna -alla prudenza e alle prime evidenze degli investigatori vengono opposte una serie di obiezioni fondate su alcuni elementi che appaiono perlomeno degni di approfondimento.
Vediamoli, ricostruendo le ultime 24 ore di vita di Emanuele.
Emanuele e Giulia sono nel loro appartamento quando poco dopo l’ora di pranzo si spegne la luce. Emanuel apre la porta d’ingresso e in casa irrompono quattro carabinieri in borghese. Stanno chiudendo un’indagine su una rete di spaccio. In casa di Manuel troveranno cocaina, hashish e un fucile.
Le fasi dell’arresto durano mezz’ora. Nel verbale i carabinieri raccontano che Scalabrin ha opposto resistenza e un militare si fa refertare all’ospedale per un calcio alla gamba: 5 giorni di prognosi.
Giulia, la compagna di Emanuel dice che i carabinieri sono stati molto duri. Spiega che lo hanno buttato sul letto e ce lo hanno tenuto per molto per ammanettarlo. Quando lo rimettono in piedi per portarlo via si è defecato e urinato addosso. Gli consentono di cambiarsi e quando esce di casa “era pallido, stava male” dice Giulia.
In caserma si lamenta e viene chiamata la guardia medica. Ha la pressione alta 175 su 95 e la frequenza cardiaca a 107. Viene portato al pronto soccorso di Pietra Ligure. Ingresso ore 22.59, uscita 23.02. Neppure cinque minuti, dicono i famigliari, per triage e visita. Gli viene somministrato del metadone e torna in cella verso le 23.30. Ne uscirà cadavere.
Sul verbale è scritto che viene trovato cadavere alle 11.40 del mattino. Un’ora che appare sospetta considerate le abitudini di una caserma e di un carcere, dove i detenuti vengono svegliati alle 7. I militari nel loro rapporto spiegano di averlo controllato con i monitor del sistema di video sorveglianza. Quando però una ditta specializzata è incaricata di recuperare le immagini della notte si scopre che l’hard disk non c’è.
In caserma per un sopralluogo c’è andata anche la pm titolare del fascicolo Chiara Venturi. Sono stati acquisiti i verbali e i referti della guardia medica e dell’ospedale.
Sulla vicenda di Emanuel c’è da registrare la presa di posizione della Comunità di San Benedetto al Porto di Genova: “Le circostanze della morte di Emanuel devono essere chiarite e non può lasciar cadere il silenzio su questo susseguirsi di violazioni di diritti e incongruenze… Per questo motivo abbiamo chiesto che venga sottoposta un’interrogazione parlamentare al ministro dell’Interno Luciana Lamorgese” si legge su un lungo post della pagina Facebook della Comunità.