«Sa che cosa mi ha detto una volta un architetto svizzero? Che queste monografie sono consolanti perché mostrano come i progetti siano complicati da realizzare per tutti, anche per i grandi architetti, con il loro carico di ripensamenti e cambiamenti». Sorride, Lia Piano, mentre tiene fra le mani l’ultima monografia edita dalla “Fondazione Renzo Piano”, quella dedicata al Ponte Genova San Giorgio. Tra pochi giorni il volume che ha curato con Elena Spadavecchia sarà nelle librerie. È stata una corsa contro il tempo, perché l’idea del libro è venuta solo dopo l’inaugurazione, il 3 agosto. Ma spiega Lia Piano, sarebbe stato impossibile non farlo.
Ma come nascono queste monografie?
«Nascono di pari passo con la nascita degli archivi della Fondazione. Da appassionata di editoria mi sono presto resa conto che spesso il modo di raccontare i progetti è un percorso lineare, in cui fila tutto liscio, con i passaggi sempre controllati. C’è un dettaglio: che i progetti non sono mai così».
E come sono, invece, i progetti?
«Arrivano in fondo dopo tentativi a volte abbandonati, ripensamenti. È una storia molto più complessa di quella che si possa immaginare e per questo molto interessante».
Quando ha iniziato?
«Da più di dieci anni, la prima è del 2007, la Menil Collection, il museo di Houston. Questa è l’undicesima».
Una in particolare che ricorda?
«Tante, ma quella di due anni fa, un’edizione speciale per i 40 anni del Centre Pompidou a Parigi è stata molto divertente. Per accogliere la testimonianza di mio padre e di Richard Rogers ho passato una giornata a Parigi. Per loro è stato come andare indietro nel tempo, all’epoca in cui erano due ragazzacci. Durante il racconto hanno iniziato a contraddirsi, non erano d’accordo su niente, è una cosa che faceva ridere e ho dovuto richiamarli. Vede, tempo fa ho ricevuto una lettera da un architetto svizzero che ha definito consolanti le mie monografie perché spiegavano come anche nel lavoro dei grandi architetti il percorso che conduce al risultato finale non è mai lineare e soprattutto non è mai come previsto».
C’è chi queste cose non le racconta…
«È vero, io invece pubblico tutto, ripensamenti, cambiamenti. Una volta anche la lettera di un cliente infuriato con mio padre in cui scriveva “Non posso finanziare la sua torre di Babele”».
Ma qual è il filo narrativo? Come procede? Ha uno schema fisso?
«Diciamo che tendenzialmente prendo un edificio e lo smonto, analizzando ogni singolo aspetto e mostrando che si può raccontare anche senza parole».
È stato così anche per il Ponte?
«A essere sincera non avevo nemmeno previsto di farla una monografia sul Ponte, non era in programma. L’approccio sobrio adottato durante la costruzione invitava a parlarne il meno possibile. In effetti, prima dell’inaugurazione quello è sempre stato un cantiere blindatissimo, nessuno lo ha visto crescere. A me è capitato quasi alla fine di andarci e di vederlo e lì è nata l’idea di raccontarlo».
Qual è stata la scintilla?
«Siamo di fronte a un’opera straordinaria, ma devo dire che mi ha colpito molto la frase di mio padre quando ha detto che questo “è stato il più bel cantiere della mia vita”. Sa, io lo vedo in cantiere da quand’ero bambina. Il Centre Pompidou a Parigi è del ‘77 e io c’ero, siamo cresciuti insieme. E sentirgli dire quelle parole mi ha spinto definitivamente a lavorare alla monografia».
E che taglio ha scelto?
«Sono partita da un punto fermo, non c’è niente da festeggiare, perché il ponte esiste perché quello di prima è crollato. Detto questo, era doveroso fare un omaggio al lavoro collettivo che ha portato a questo risultato. Questo è stato un cantiere che non si è fermato mai e ha operato anche durante la pandemia, quindi con un carico di rischio e di pericolosità per le persone maggiore. Non a caso alla fine ho inserito i nomi di tutti quelli che ci hanno lavorato».
I mille del Ponte?
«Sono 1.184, sì li ho messi tutti. La cifra che ho usato è stata quella della sobrietà, peraltro elemento che ha contraddistinto tutto il lavoro».
Suo padre l’ha definito un ponte genovese…
«È un progetto importante nella carriera di mio padre, perché qui ci sono le sue origini e il suo rapporto con la città. Lui Genova ce l’ha anche nella matita e il suo amore per la città si traduce anche nel desiderio di migliorarla. Ma il ponte è genovese per la sua semplicità, frutto di un enorme lavoro, perché, sempre come dice mio padre “chiede permesso, è discreto”».
Il libro sarà disponibile fra pochi giorni. Rivedendolo adesso che impressione le fa?
«L’ho visto per la prima volta venerdì scorso, arriviamo giusti sotto Natale, ma d’altra parte abbiamo dovuto correre, visto che il lavoro è iniziato dopo l’inaugurazione. Io ho cercato di fare un lavoro di traduzione di quanto realizzato attraverso una divisione tematica per capitoli, il ponte cittadino, la nave bianca. Abbiamo preso i concetti chiave attorno a cui è nato questo ponte».
Sta già lavorando alla prossima monografia?
«Da poco più di un anno ho intensificato il mio impegno sulla scrittura, anche sul fronte narrativo con un romanzo che ho pubblicato con Bompiani. Ma le posso dire che ci sarà presto anche una nuova monografia. Torneremo all’estero, in Russia, dove mio padre ha lavorato per la prima volta, per un progetto di riconversione di una grande centrale elettrica in centro culturale».