Milano – Non ci sono tracce di assassino intorno al cadavere di Stefano Ansaldi. Non ne vede il testimone che lo vede rantolare dopo essere stato sgozzato, e morire in pochi secondi per dissanguamento come certificato ieri dall’autopsia sul 65enne ginecologo originario di Benevento. Non ne passano sotto la telecamera di via Mauro Macchi che, dieci minuti prima, aveva immortalato il suo angosciato andirivieni.

Non ci sono impronte sul manico del coltellaccio ritrovato sul marciapiede, perché è stato impugnato con i guanti di lattice, come quelli – lo dicono gli occhi elettronici della Stazione Centrale – che Ansaldi indossava già al suo arrivo in treno da Napoli, alle 14.50 di sabato. Ancora, non ci sono telefonate né messaggi partiti dal suo smartphone poco prima delle 18.06, l’ora della sua morte: è l’unico pezzo mancante e non genera traffico da diverse ore prima. Spento, gettato chissà dove, mai recuperato.

Non c’erano appuntamenti “con colleghi di lavoro”, o “con qualcuno in arrivo dalla Svizzera”, come raccontato a moglie e sorella. Infine, potrebbe mancare un coltellaccio da pane da casa del professionista – la perquisizione di lunedì non ha dato esiti certi – o potrebbe averlo acquistato in contanti nelle tre ore del suo girovagare a Milano, lontano da video e tracciamenti elettronici. Per tutti questi motivi, i carabinieri del Nucleo investigativo di Milano – guidati dal tenente colonnello Antonio Coppola e coordinati dal pm Adriano Scudieri – sono convinti che la soluzione del giallo che ha sconvolto Milano sia quella più inverosimile e insieme più semplice. Il suicidio.

Un lavoro per sottrazione, cominciato dall’ipotesi della rapina degenerata, dei due predoni seriali ed extracomunitari in fuga, che tanto aveva fatto gridare le destre al lupo, e suggerito al sindaco Beppe Sala e al prefetto Renato Saccone di mettere il controllo del territorio all’ordine del giorno, nel Comitato provinciale di oggi. Solo che il Rolex Yacht Marine di Ansaldi era stato sganciato, richiuso e adagiato sul marciapiede, a differenza dell’orologio rubato al 72enne Anacleto G. alle 18.25, mezzo chilometro più in là: folle pensare a un nuovo colpo, e non alla fuga immediata.
Difficile pensare alla rapina stessa, visto che nel cappotto di Ansaldi erano rimasti 20 euro, carta d’identità e tessere. E nella borsa di cuoio, quella che avrebbe custodito il coltellaccio fino all’ultimo, c’erano ancora documenti e caricabatterie. Scartati, dopo aver ascoltato familiari e colleghi, ricatti per prestazioni mediche, minacce dalla camorra, clienti scontenti per una fecondazione assistita non andata a buon fine, sono venuti meno via via i potenziali moventi del delitto.
Manca, al momento, una traccia evidente – non un messaggio scritto, ma si stanno analizzando i computer e i tablet di Ansaldi – del disagio che avrebbe portato il ginecologo a una fine così estrema, così plateale eppure così nascosta, al buio e sotto un’impalcatura. Ma, anche, davanti a un testimone-chiave di un non delitto.