Non solo vaccini. C’è una cura efficace contro il Covid che, con meno clamore, è stata approvata negli Stati Uniti tre settimane fa. “Perché gli anticorpi monoclonali non arrivano anche da noi?” si chiede allora in Italia Massimo Clementi, virologo del San Raffaele di Milano. Due aziende americane, Eli Lilly e Regeneron, hanno già ottenuto il via libera dalla Food and Drug Administration per l’uso in emergenza dei loro anticorpi artificiali, prodotti in laboratorio a partire da quelli naturali prelevati dai pazienti guariti dal Covid. Negli ospedali americani la cura è già disponibile. Eppure quello che viene definito come il farmaco più promettente per curare il coronavirus ancora non è decollato. Gli Stati Uniti continuano a battere i record quotidiani di morti. In Italia intanto la Menarini di Pomezia ha iniziato a produrre le prime dosi per la sperimentazione che inizierà presto sugli uomini, sotto la guida della Fondazione Toscana Life Sciences e dello scienziato Rino Rappuoli.
“Sono una celebrità, per questo ho ricevuto cure migliori” ha detto in un’intervista Rudolph Giuliani, 76 anni, avvocato di Trump, dopo le dimissioni dall’ospedale per Covid. Come lo stesso presidente il 2 ottobre, quando si ammalò, anche Giuliani ha ricevuto il prezioso trattamento a base di monoclonali, 3mila euro a dose e una produzione troppo lenta per venire incontro alla domanda rampante. Gli anticorpi vengono generati da cellule sottoposte a ingegneria genetica in pentoloni detti “bioreattori” e in condizioni di coltura molto precise per un mese. Pur essendo approvati negli Usa, solo pochi ospedali hanno ricevuto i monoclonali. Per decidere a chi somministrarli, si propone la lotteria. A meno che, ovviamente non si abbiano preziose entrature alla Casa Bianca. Anche Ben Carson, uno dei ministri di Trump, ha ricevuto il farmaco per diretta intercessione del presidente. Il quale li aveva ricevuti ancor prima dell’autorizzazione da parte dell’Fda (ma tre giorni dopo il comunicato stampa della Regeneron con i risultati delle sperimentazioni).
Gli anticorpi monoclonali funzionano in modo diverso dal vaccino. Sono anticorpi già pronti e serviti. Restano efficaci nell’organismo fino a sei mesi, almeno i migliori. Possono essere somministrati come prevenzione in persone molto esposte al virus, come medici e infermieri delle rianimazioni, o in persone già malate. Ma solo nei primi giorni dopo il contagio: quando il coronavirus è in rapida espansione nell’organismo e gli anticorpi naturali non ce la fanno a contrastarlo. In questo caso, l’arrivo di una truppa di rinforzo dall’esterno può fare la differenza. Se però si sbagliano i tempi di somministrazione, e l’infezione è già passata alla sua seconda fase, quando il sistema immunitario “perde la testa” e dà vita alla tempesta di citochine che distrugge i polmoni e toglie il respiro, gli anticorpi monoclonali sono inutili. A quel punto non è più il coronavirus a creare danni all’organismo. Il problema ormai è il sistema immunitario fuori giri. Le truppe di anticorpi monoclonali non sono più d’aiuto. Per questo motivo le prime sperimentazioni di Regeneron ed Eli Lilly negli Usa avevano dato risultati deludenti.
Oggi, con l’esperienza, i monoclonali vengono usati meglio. Ma il loro impiego resta complesso. Le dosi da somministrare sono molto alte, c’è bisogno di un’infusione fatta in ospedale. La tecnica di Rappuoli in Italia, da questo punto di vista, sembra molto più promettente. Lo scienziato italiano che guida il laboratorio Mad (Monoclonal antibody discovery) ha individuato in alcuni malati di Roma e Siena anticorpi fino a mille volte più potenti di quelli americani, ed è riuscito a riprodurli in laboratorio prima e a portarli in produzione a Pomezia poi. La speranza è che quando saranno utilizzabili nel nostro paese (la previsione è per marzo) possano essere somministrati in dosi più basse, quindi con problemi di produzione e costi ridotti- Dovrebbe bastare una normale puntura. Senza lotteria.