ROMA – Pfizer, tre settimane. Moderna, quattro settimane. AstraZeneca, tre mesi. Perché i richiami dei vaccini contro il Covid vanno fatti a distanze di tempo così diverse? E quanto rigorose devono essere le scadenze? Pfizer e Moderna non hanno mai cambiato strategia, raccomandando anzi alla Gran Bretagna di restare fedeli alle disposizioni iniziali, quelle seguite nelle sperimentazioni. AstraZeneca invece ha appena annunciato una nuova agenda. Se l’approvazione dell’Agenzia europea per i medicinali (Ema) raccomanda la somministrazione della seconda dose in un intervallo variabile fra le 4 e le 12 settimane dalla prima, il 19 febbraio su Lancet è stata pubblicata una nuova indicazione. Meglio aspettare il massimo possibile: 3 mesi. L’efficacia del vaccino, con l’attesa lunga, passa all’81% rispetto al 55% di un richiamo effettuato a 6 settimane dalla prima dose.
“Si tratta di due famiglie di vaccini diversi” è la prima considerazione da fare per Andrea Cossarizza, immunologo dell’università di Modena e Reggio Emilia. Pfizer e Moderna sono vaccini a Rna: una sequenza genetica entra nelle nostre cellule e sovrintende alla produzione della spike del coronavirus: l’antigene che stimola il sistema immunitario. AstraZeneca usa il metodo del vettore virale: un adenovirus di scimpanzé entra nelle cellule e vi rilascia il Dna della spike. “I due processi avvengono in tempi diversi” spiega Cossarizza. “Con il metodo dell’Rna la spike viene prodotta più rapidamente. Partire dal Dna richiede invece più passaggi, quindi un tempo superiore”. Questo almeno in teoria. “Perché nessuno finora ha provato a fornire un’informazione che sarebbe molto utile: quanta spike viene prodotta dall’organismo dei vaccinati, e in quanto tempo?”.
Per valutare l’efficacia dei vaccini, finora, si sono usati soprattutto due parametri: quanti sono gli anticorpi prodotti contro la spike e quanti contagi avvengono fra i vaccinati. “Misurare la spike nel plasma del sangue, e capire quanto si estende la sua circolazione nell’organismo, permetterebbero di capire come si dispiega nel tempo l’effetto del vaccino” spiega l’immunologo. Anche se non ci sono le prove, però, è ragionevole immaginare che “il vaccino a Rna sia come un motore a benzina e quello a vettore virale come un diesel. Questo spiegherebbe perché l’efficacia di AstraZeneca è superiore con le due dosi più distanziate”.
La strategia della Gran Bretagna di rimandare le seconde dosi privilegiando le prime potrebbe dunque non rivelarsi ideale nel caso di Pfizer e Moderna, mentre potrebbe avere senso con AstraZeneca. La stessa Aifa (Agenzia italiana del farmaco), il 10 febbraio, dieci giorni dopo l’approvazione dell’Ema, in una circolare diffusa dal Ministero della Salute ha raccomandato “che la seconda dose del vaccino AstraZeneca dovrebbe essere somministrata idealmente nel corso della 12esima settimana (da 78 a 84 giorni) e comunque ad una distanza di almeno 9 settimane (63 giorni) dalla prima dose”.
C’è un’altra ipotesi che potrebbe spiegare il miglior funzionamento del vaccino di AstraZeneca, messo a punto dall’università di Oxford, in un regime da diesel. Ad attivare il sistema immunitario infatti non è solo la spike, sintetizzata dalle nostre cellule. Ma è anche l’adenovirus usato come vettore e inoculato nel braccio. “La reazione del sistema immunitario contro il vettore virale tende a ridurre l’efficacia del vaccino” spiega Cossarizza. Il russo Sputnik tenta di aggirare il problema usando due adenovirus diversi per prima e seconda dose: uno di scimpanzé e uno umano. Il problema semplicemente non esiste con i vaccini a Rna, perché questa molecola non stimola la risposta immunitaria. “Se invece dopo la prima dose di AstraZeneca si sviluppa una reazione del sistema immunitario contro l’adenovirus, è meglio attendere tre mesi e aspettare che gli anticorpi svaniscano, prima di somministrare la seconda dose”. Per ora ci si deve accontentare dei dati di efficacia comunicati dalle aziende, che nel caso di AstraZeneca sono stati variegati. Solo con la diffusione dei vaccini nel mondo reale potremo misurare l’effetto dell’immunizzazione. E per quello, sì, saremo costretti ad aspettare i fatidici tre mesi.