Il compagno della donna accusato di omicidio volontario aggravato risponde alle domande in aula La Corte d’assise dispone una perizia psichiatrica e affida il caso al superperito del caso di Cogne
TERAMO. «Quel giorno mi ha guardato come uno schiavo. Ho perso il controllo, l’ho colpita e poi non ricordo più nulla». Le tragedie perdono il tempo: un’eternità o un secondo a scandire l’epilogo. Cristian Daravoinea racconta in aula l’altra vita: quella con la sua compagna Mihaela Roua e la sua bambina. Il prima e il dopo quelle sei coltellate di un ennesimo femminicidio.
Nel giorno in cui in Corte d’assise (presieduta da Domenico Canosa) si chiude l’istruttoria dibattimentale, l’uomo accusato di omicidio volontario aggravato sceglie di sottoporsi all’esame da imputato. Dopo la confessione davanti al pm nella notte del fermo e la successiva davanti al gip (materiale già agli atti della corte), il 36enne romeno si siede nuovamente davanti ai giudici per rispondere alle domande. Del pm Davide Rosati, degli avvocati di parte civile e dei suoi difensori. Provato, ma niente lacrime, racconta di quel giorno, delle coltellate e della sua decisione di farla finita. «Pure adesso voglio morire», dice, «e sono sicuro che riuscirò a farlo».
Di quel 9 ottobre 2019 dice: «Sono tornato dal lavoro e l’ho aspettata per pranzare insieme. Dopo pranzo lei si è messa vicino alla finestra e mi ha guardato come uno schiavo. Ho perso il controllo. Ho afferrato un coltello dalla cucina e le ho dato due coltellate». Al pm che gli ricorda che i fendenti sono stati sei dice: «Non ricordo, da quel momento in poi non ricordo più nulla». Racconta che non sapeva niente della relazione sentimentale della 32enne con il suo datore di lavoro, solo che lei gli aveva detto che un giorno sarebbe diventata la titolare della ditta in cui lavorava. E ancora: «Volevo bene a lei, voglio bene a mia figlia».
In aula prima di lui lo psichiatra Luigi Olivieri, consulente della difesa, che dice: «Non è uno psicotico, presenta tratti anti sociali della personalità che hanno ridotto la sua capacità di intendere». E poi la sorella dell’imputato. Racconta la donna: «Prima di acquistare la casa di Nereto andavano d’accordissimo. Era una coppia affiatata, innamoratissima. Poi qualcosa tra di loro è cambiato. Inizialmente nessuno dei due mi ha detto niente, ma io ho intuito che ci fosse qualcosa che non andava e ho cominciato a chiedere a mio fratello. Mi diceva che con l’acquisto della casa avevano fatto dei debiti. C’era qualcosa che cominciava a non andare. Parlavo con mio fratello, mi diceva che in quella casa sentiva delle voci, che non era tranquillo. Tante volte gli ho detto di lasciare tutto e di venire a Torino dove vivo io. Mi raccontava che Mihaela un giorno gli diceva che voleva continuare a stare con lui e un giorno che si voleva separare. Lui negli ultimi tempi era sempre più confuso e questo lo sentivo nelle telefonate che gli facevo. Per questo gli ripetevo di lasciare tutto e venire da me». La difesa dell’uomo (rappresentata dagli avvocati Mario Gebbia (del foro di Torino) e da Federica Di Nicola, ha chiesto ed ottenuto una perizia psichiatrica. I giudici hanno affidato l’incarico a Roberto Ariatti, lo stesso che si è occupato del caso di Cogne. A rappresentare come parti civili i familiari della vittima e la bambina gli avvocati Arcangela Tardio, Barbara Di Pietrantonio e Maria Teresa D’Antonio.
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