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City Pescara News > attualità > cronaca > Alice, 26 anni: “Mi insultano perchè sono la testimonial dell’aborto farmacologico: ma io vado avanti”

Alice, 26 anni: “Mi insultano perchè sono la testimonial dell’aborto farmacologico: ma io vado avanti”

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10 Marzo 2021
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“Sui social network mi danno ogni singolo giorno della fallita, dell’assassina, della puttana, c’è chi mi compatisce e chi mi scrive che sta pregando per la mia infelicità. Io però non potrei essere più serena e felice di così, ho fatto del mio personale uno strumento di lotta per i diritti di tutti e per primo per quello più importante, il diritto alla felicità”.

Alice Merlo ha 27 anni, vive a Genova, lavora in politica ed è da qualche giorno il volto della campagna nazionale a difesa dell’aborto farmacologico. Una testimonial non per caso ma in carne, ossa, nome, corpo. “Chiamata al ruolo” – spiega – da un’interruzione di gravidanza scelta lo scorso anno, praticata con la Ru486, la pillola abortiva, “felicemente condivisa” con genitori, familiari, amici. Una “forma di testimonianza”, – viene definita – portata avanti grazie all’Uaar, l’unione degli atei e degli agnostici razionalisti, l’associazione promotrice della campagna, che ha portato questa giovane attivista femminista e la sua storia sulle affissioni sui muri di mezza Italia, in decine di migliaia di condivisioni sui social, e dal prossimo 22 marzo lo farà su 70 maxi manifesti anche per le strade della sua città. Il luogo dove le affissioni anti abortiste hanno suscitato le proteste più dure di collettivi femministi e associazioni, nei mesi scorsi, e da dove – è l’ammissione – “arrivano ancora insulti, incomprensioni, tentativi di disinformazione” su un tabù ritrovato, “forse mai affrontato”, come l’aborto.

La campagna di cui è testimonial prende tutto. Volto, nome, storia personale, profilo social. 

“L’ho scelta per questo, perché mi è stato chiesto di fare informazione sul funzionamento e la sicurezza della pillola abortiva senza nascondere nulla di me, neanche il nome. Serviva una persona che ci mettesse la faccia, ma anche e soprattutto l’esperienza, una vita intera. Ho avuto una gravidanza indesiderata lo scorso settembre, me ne sono accorta quasi subito, ho fatto le visite del caso entro la quarta settimana, in tempo per ricorrere all’aborto farmacologico e rispettando tutte le procedure, settimana di riflessione compresa. Un’esperienza che sono felice di aver scelto, nonostante tutti gli insulti che ricevo e il nervoso che mi faccio sui social davanti a tanti tentativi di disinformazione, spesso organizzata, spesso finanziata”.

Come arriva, una ragazza di 27 anni, a fare una scelta così delicata e a farne una battaglia pubblica?

“Il personale è politico, se la mia esperienza può far crescere il dibattito sui diritti, eccomi qui, pronta a farlo diventare pubblico. E poi ho potuto farlo in una posizione di privilegio, il mio aborto non è stato mai un segreto, ho potuto scegliere con il sostegno di un’ampia, sicura base di supporto, fatta di datori di lavoro, amici, famiglia e storia di famiglia. La mia bisnonna, del resto, fece la stessa scelta quando era ancora illegale, ha lottato a lungo per la 194. Oggi sarebbe contenta di sapere che le donne di qualsiasi età possono abortire gratuitamente, legalmente e in sicurezza, senza lo shock fisico di un intervento chirurgico”. 

L’impressione è che si stia vivendo una fase di radicalizzazione del dibattito, tra chi la pensa in un modo e chi un altro. La distanza aumenta, invece di diminuire.

“Aumenta la violenza verbale, quello sicuro, soprattutto in contesti come i social network, e soprattutto sui temi che riguardano la libertà e l’autodeterminazione della donna e dei diritti in generale. Avviene in forma sparsa, autonoma, ma anche organizzata e istituzionale. I manifesti che definivano “veleno” la pillola abortiva, di fatto la ragione per cui ho scelto di partecipare a questa contro campagna informativa, lo dimostrano”.

A che livello di maturità è arrivato il dibattito sul tema, in un Paese in cui – tra le tante – ancora si discute sull’8 marzo e sul concetto di autodeterminazione della donna?

“L’8 marzo pieno di contraddizioni che abbiamo appena vissuto è simbolo perfetto del livello del dibattito. Sul tema di diritti della donna c’è un movimento femminista internazionale sempre più inclusivo, ma anche una politica sempre più chiusa, ipocrita, che magari usa terminologia e riferimenti corretti ma non fa niente per cambiare le cose. Nello specifico dell’aborto, invece, si fanno passi avanti ma la sensazione è ancora si faccia di tutto per renderlo difficile. Idealmente, così come nel concreto”.

In che senso?

“Io, per abortire con l’Ru486, mi sono rivolta al principale ospedale della mia città. Non ho avuto nessun incontro con obiettori di coscienza, ma mi sono scontrata con una lunga serie di difficoltà logistiche nel servizio, come la totale mancanza di indicazioni all’interno degli ambulatori o l’impossibilità di ottenere un appuntamento con orari e tempi precisi, che mi hanno fatto pensare. Diciamo che se si può rendere complicata la scelta, negli ospedali pubblici, lo si fa. L’impressione è che una scelta del genere si debba conquistare una, due, tre volte. Fa parte di uno stigma sociale ancora molto vivo, viviamo in una società dove l’aborto viene visto come un fallimento personale e sociale”.



Di cosa avrebbe bisogno, questo Paese, per fare passi avanti da questo punto di vista?

“C’è bisogno di informazione. A rendere più faticosa la strada dei diritti, in questo Paese, oltre ad un certo moralismo c’è più che altro disinformazione, tanta ignoranza. Il motivo per cui ho scelto di mettere tutta me stessa in una campagna informativa. E poi servono percorsi di educazione alla sessualità nelle scuole, come succede in tanti altri paesi europei. Occasioni di crescita, conoscenza, confronto per i ragazzi. Programmi di educazione all’affettività. Prendere la pillola abortiva non è come mangiare una caramella, anche se, la mia storia insegna, si può fare nella massima sicurezza. Ma proprio per questo va spiegato, da subito. Così come vanno spiegati e fatti conoscere tutti i metodi contraccettivi”.

Il 10 marzo sono 50 anni esatti da quando la Corte Costituzionale ha abolito, grazie all’Aied e la militanza di cittadini e associazioni, il divieto di propaganda dei metodi anticoncezionali. Di strada se ne è fatta, o no?

“Ma ancora oggi, in Italia, in alcune scuole non si fa neanche educazione sessuale. E in alcune farmacie si fa ancora resistenza nel dare la pillola del giorno dopo. Per questo, è così importante che un certo attivismo continui per la sua strada. Il nuovo movimento femminista, oggi, sta facendo fare passi avanti importanti”.

Cosa ha di nuovo, il femminismo di questa era? Non ha sulla coscienza i suoi errori, i suoi peccati di “radicalismo”?

“E’ un movimento molto più pacato dialogante, inclusivo, trasversale di quello che poteva essere anni fa. Si sta allargando, coinvolge uomini, donne, la causa lgbt, tante altre lotte. Ed è il motivo per cui spaventa così tanto. Prima si dividevano lotte e persone in compartimenti stagni, adesso si organizzano, conoscono, aiutano”.

E la politica, in tutto questo? La sinistra cosa deve fare per dire ancora qualcosa di sinistra, sul tema?

“La sinistra deve fare il possibile per evitare il solito errore che si fa a sinistra, nei movimenti come nella politica e come tra attivisti. Non pensare di avere la verità in tasca, di essere gli unici a saper leggere il mondo, di poter ignorare chi la pensa in maniera diversa. Il senso della campagna di cui sono diventato il volto, alla fine, è esattamente l’opposto di questo atteggiamento. Potevamo scegliere qualcosa di provocatorio e divertente solo per dare fastidio alla mentalità antiabortista, o fare qualcosa di alto e comprensibile solo per pochi. Abbiamo scelto invece di fare una campagna di informazione, unicamente per informare, il più aperta possibile. Capace di parlare e lottare per i diritti di tutti”.

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