Volti coperti da passamontagna, nomi protetti dall’anonimato, rime pesanti capaci di riaprire storiche ferite: un oltraggio alla memoria che per la procura di Torino non è musica, ma istigazione a delinquere. Poco prima di Natale 2021 la band P38 gang (una stella a cinque punte, identica a quella delle Brigate Rosse, il simbolo del gruppo che ha scelto di battezzarsi con il nome dell’arma-simbolo della sovversione armata) aveva iniziato ad attirare l’attenzione della Digos e dei carabinieri del Ros per gli inquietanti testi delle sue canzoni trap.
La più famosa, quella sul rapimento di Aldo Moro, dal titolo “Renault”, conteneva espliciti riferimenti (rappando “Presidente non mi sembra stanco, la metto dentro una Renault 4”, con riferimento all’auto nella quale fu trovato il cadavere del presidente della Democrazia cristiana assassinato dalle Br).

Ma i pm Enzo Bucarelli e Paolo Scafi, che per primi in Italia hanno iniziato a indagare arrivando a capire chi siano i quattro rapper che si nascondono dietro ai passamontagna, sono stati attirati anche da un’altra canzone, un testo contro la Tav che si intitola, non a caso, “Dana libera Freestyle”, in omaggio alla portavoce del movimento contro l’alta velocità, Dana Lauriola, che ha da poco terminato di scontare la sua pena.
I “P38” cantano così: “Meglio morto che carabiniere. A Chiomonte lancio bombe nel cantiere “, e ancora: “Date due anni a Dana perché Dana abitava nella sua casa. L’avete presa ma non ve la lasceremo. Sbirri fanno scemo e più scemo. Tutta Italia è Bussoleno. No Tav fino alla fine, fanculo ai tuoi partiti. Voglio vedere le carceri crollare a pezzi “.

L’obiettivo degli inquirenti è stato quindi accertare se i rapper “brigatisti” avessero partecipato a cortei contro la Tav e quali fossero i loro legami con il movimento contro il cantiere. Poco dopo la prima iscrizione (che all’epoca era contro ignoti), tra le varie denunce che iniziavano ad accumularsi nelle città in cui la band si esibiva, è arrivato anche l’esposto presentato a Pescara da Bruno D’Alfonso, uno dei tre figli di Giovanni D’Alfonso, il carabiniere di 44 anni ucciso dalle Brigate Rosse il 5 giugno 1975 nello scontro a fuoco alla cascina Spiotta per la liberazione dell’industriale Vittorio Vallarino Gancia.
In seguito a quell’esposto, D’Alfonso aveva ricevuto via social un’immagine del padre con sopra una croce e la scritta “Sei il prossimo” . Era stato lui a dicembre a far riaprire anche le indagini proprio su quel conflitto a fuoco avvenuto durante un blitz alla cascina Spiotta ad Arzello, nell’Alessandrino, in cui rimasero uccisi la moglie di Renato Curcio, Margherita “Mara” Cagol, e l’appuntato dei carabinieri.
Il pool antiterrorismo del procuratore aggiunto Emilio Gatti indaga quindi su entrambi i fascicoli: quello per trovare una verità di 46 anni fa e quello su chi oggi cerca ancora la ribalta dietro a un passamontagna e una stella a 5 punte.