Prima dell’ultimo esemplare – l’abete bianco fuorisede, o forse apolide, destinato a San Pietro che pensava d’essere abruzzese e invece aveva passaporto molisano – ci furono Spelacchio, Ferracchio, Luminacchio, l’albero sponsorizzato dalla Coca Cola inviso ai no global, l’abete Netflix (poi sommerso per protesta di mondezza), il “bottiglione” di Roma, le polemiche social arrivate Oltreoceano e l’ira ambientalista austriaca, trentina, valdostana, calabrese, a seconda della provenienza del fusto segato e trasportato in giro per l’Italia ad abbellire le piazze.
Non è certo la prima volta che l’albero di Natale pubblico, che sia di Roma, di Milano o del Vaticano, finisce insomma al centro delle polemiche pre-natalizie che si accendono e si spengono come le luminarie a ogni passaggio d’anno.
Nel 1989, sotto il papato di Giovanni Paolo II, il colonnato del Bernini rischiò di ritrovarsi solo e spento, per la prima volta dopo 7 anni, da quel 1982 cioè in cui, per via di un contadino polacco che aveva regalato un abete al Pontefice, nacque la tradizione di decorare piazza San Pietro con un albero prelevato da una regione europea. Quell’anno il tronco doveva arrivare dall’Alta Austria ma gli ambientalisti locali provarono a fermare il carico protestando per i loro boschi depauperati.
Nel 2006, papa era Joseph Ratzinger, fu il Wwf della Calabria, la Regione interessata allora dal dono natalizio, ad alzare la voce con un appello finito nel nulla per evitare il taglio dell’abete.
Nel 2018 era stato l’albero di Polcenigo a scatenare le polemiche sui social: “Con tutto quello che è successo era meglio lasciare l’albero al suo posto”, si diceva alludendo alla strage di alberi in Friuli Venezia Giulia.
E ancora lo scorso anno era stata la comunità di Andalo a saltare su tutte le furie per il taglio di un abete rosso di 113 anni costato sette anni di trattative. Si era parlato di costi esorbitanti (175 mila euro), poi smentiti (15 mila euro in tutto), di “operazione triste” condotta però secondo le linee guida della provincia di Trento e il Vaticano aveva persino diffuso una nota sulla sostenibilità dell’operazione.
Eppure gli ecologisti ci speravano, e ci sperano ancora, che il Papa ambientalista Francesco ponesse fine al taglio dell’abete.
Ma a Roma quel che resta indimenticabile è l’anno 2017 quando sotto la guida della sindaca m5s Virginia Raggi in piazza Venezia arrivò un albero talmente magro, misero e spoglio da essere soprannominato Spelacchio (per contrapposizione quello di San Pietro prese il nome di Rigoglio). Ai milanesi, che pure nel 2013, con Giuliano Pisapia, si videro installare al Duomo un “albero bonsai”, mai era venuto in mente di ribattezzarlo così. A Roma Spelacchio è stato epica, epopea, leggenda. Seppur breve: traumatizzato dall’abbattimento, dal viaggio infinito dalla Val di Fiemme, dai 50 mila euro spesi per averlo e decorarlo, fu dichiarato morto ancora prima di Natale. Per riabilitarlo col suo legno fu costruita una nursery a villa Borghese, ma pure la sua seconda vita è sembrata un fallimento.
Come in ogni saga c’era poi stato “Spelacchio 2” e così via. Fino allo scorso anno, il primo Natale dell’era Gualtieri il cui abete è stato stato ribattezzato “er boccione”, il bottiglione. Sui social il coraggioso hashtag grillino: #AridateceSpelacchio.
Anche a Milano, dove ogni volta c’è chi storce il naso contro multinazionali e privati che sponsorizzano le luminarie in piazza del Duomo (quest’anno toccherebbe a Estetista cinica), il sindaco Beppe Sala ha dovuto vedersela nel 2019 con l’ira per il suo “cono di ferro con le palle”: un albero sostenibile a led. I detrattori, ispirati stavolta sì da Roma, lo avevano soprannominato “Ferracchio”. Lui ci aveva scherzato su: “No, è Luminacchio“.