Lasciare il posto di lavoro, licenziarsi. Un fenomeno partito dall’America come “The great resignation”, che è arrivato in Italia con numeri praticamente equivalenti, e che è esploso in Veneto, con migliaia di persone in cerca di un futuro diverso e migliore, ovvero con l’obiettivo di trovare il giusto equilibrio tra ambizioni professionali e vita privata. Fatto sta che tra gennaio e aprile di quest’anno in Veneto si sono dimesse 66.300 persone, il 50% in più rispetto allo stesso periodo del 2021. Lo segnala l’ente Veneto Lavoro, che evidenzia come un vero e proprio boom si sia registrato nel mese di aprile, quando si sono registrati 13.700 posti di lavoro “liberati” a fronte degli oltre 19mila guadagnati nello stesso periodo pre-pandemia. Una tendenza confermata dall’associazione “Ricerca Felicità”, che ogni anno valuta lo stato di salute in quanto a felicità e benessere tra i lavoratori italiani, sia nella dimensione aziendale sia in quella individuale e sociale. Emerge che in Italia il 38,5% di coloro che hanno già un lavoro ha in mente di cambiarlo nei prossimi 12 mesi, una percentuale omogenea tra tutti i lavoratori, solo inferiore tra professionisti/partite Iva (28%). Ed è un’ottima notizia, che indica un mercato maturo, che le persone percepiscono come ricco di opportunità, e una mutata psicologia del lavoratore, che non è più ancorata al posto di lavoro a vita.
“Abituarsi a cambiare lavoro più spesso di quel che era nella cultura italiana è un fattore positivo, che tra l’altro già di per sé aumenta la produttività. Un tempo era talmente alta la paura di non trovare un nuovo lavoro, una valida alternativa, che le persone non si sentivano di affrontare il rischio”, ci spiega Sandro Formica, vice-presidente e direttore scientifico dell’associazione Ricerca Felicità (un’ampia intervista sul prossimo numero del magazine The Map Report). “Ora la sensibilità e le priorità sono cambiate: prima di tutto devo stare bene. Questo è il vero benessere”. Il fenomeno delle great resignation sono anche una diretta conseguenza del lockdown. “Le persone hanno avuto modo di riflettere, di fare valutazioni diverse della loro vita e del contesto lavorativo. Lo sapevamo che il mondo del lavoro non sarebbe più stato lo stesso dopo la pandemia, e ora lo vediamo nei numeri. Le persone, se non si trovano bene, se ne vanno. Come è giusto che sia”. Infatti, nell’indagine – che ha coinvolto 1.079 persone, suddivise tra lavoratori dipendenti (67,7%), liberi professionisti (13,1%), manager (7,2%) e imprenditori (12%) – si delinea un’Italia nel complesso più soddisfatta del proprio lavoro, molto più soddisfatta. Nel 2021, solo il 28,7% aveva risposto positivamente alla domanda “quanto sei soddisfatta/o del tuo lavoro?” mentre, nel 2022, gli intervistati che si dichiarano soddisfatti hanno raggiunto il 37,5%, con una crescita di quasi 10 punti percentuali. Dai dati emersi, risulta che la ricerca di nuove opportunità è presente soprattutto tra i Millennials – riguarda quasi la metà, il 49% – mentre si rivela decisamente meno “mobile” chi è al termine della carriera. Tuttavia, tra i Baby Boomers, ovvero i più maturi, il 18% sarebbe comunque disposto a cambiare posto di lavoro. Con quali motivazioni? “La mancanza di sviluppo personale, professionale e di carriera, seguono la mancanza di riconoscimento e la paura del burnout, ovvero l’esaurimento, fattore ampiamente al primo posto tra imprenditori e manager: con oltre il 43%” spiega Elga Corricelli, co-founder dell’associazione. Come reagire? Se da un lato il fenomeno è sano e merita semplicemente un cambio di prospettiva per dipendenti e aziende, dall’altro “le aziende dovrebbero comprendere al più presto come limitare questo fenomeno, al fine di rimanere competitive nel mercato. Oggi e nel futuro, si relazioneranno sempre di più con persone che chiedono maggiore flessibilità, benessere e Hybrid Working, così da gestire in autonomia i propri orari, lavorando per obiettivi condivisi e agendo sulle leve della fiducia, non del controllo. La nuova immagine del lavoro che sembra delinearsi racconta del desiderio di poter contribuire con valore, crescere secondo leve meritocratiche e contare sulla collaborazione autentica di tutti”, continua Formica.
La richiesta di avere più opzioni verso lo smart working riguarda comunque solo una minoranza dei lavoratori, per quanto significativa (14%). Tra le altre esigenze, oltre a migliori condizioni economiche, la ricerca di un minore livello di stress (ampiamente al primo posto tra gli imprenditori) e opportunità di crescita personale/professionale. Minore rilevanza trovano le opportunità di carriera (19,7%). Ma qual è l’errore più comune che un datore di lavoro tipicamente compie nel nostro Paese? “Separare la persona dal lavoratore – spiega Formica -. Il datore di lavoro mostra troppo spesso poca sensibilità verso i bisogni del lavoratore. E infatti non sanno e non chiedono quali sono i bisogni più comuni: riconoscimento, stima, apprezzamento, una comunicazione chiara. La mancanza di riconoscimenti genera una sofferenza che danneggia e influenza altri aspetti del benessere sul posto di lavoro, come la soddisfazione e il senso di appartenenza. Sentire ignorati i propri bisogni – che può anche essere quello ad esempio di essere sfidato, supportato o di spezzare il lavoro con il gioco (vedi chi fa meeting in piscina con le palle di plastica) – ci manda in modalità sopravvivenza. Le aziende hanno altre preoccupazioni, ma non si rendono conto che se non mettono la persona al centro, l’azienda va in sofferenza. La vecchia percezione da superare è che il lavoro sia sacrificio. Invece fare semplicemente un questionario per i propri dipendenti, con tre semplici domande, per iniziare poi una pianificazione di questi bisogni, cambierebbe radicalmente la resa di un team. Oggi, quello che riscontro è che un terzo solamente dei dipendenti si dice soddisfatto al 100%”. Tuttavia ci sono ottime speranze per il nostro Paese. Facciamo sempre meglio nelle graduatorie internazionali, che continuiamo a scalare. E da parte invece dei dipendenti, qual è l’errore più tipico, che potremmo evitare per viverci meglio il nostro impiego? “Allo stesso modo, essere refrattari nell’esplicitare i propri bisogni. Se guardiamo alle ragioni per cui si vuol cambiare lavoro, la prima risposta è la mancanza di crescita professionale e umana. Ma se i dipendenti fossero un po’ più propositivi – ma devono averne la possibilità – potrebbero scoprire datori di lavoro flessibili e disposti ad ascoltarli. In Italia siamo spesso ancora troppo preoccupati di esternare i nostri bisogni o quello che desideriamo, mentre negli Usa le persone sono meno timorose, più “oneste”: diciamo che si preoccupano meno di essere trasparenti. Dipende anche dal fatto che lì il lavoro non manca, il mercato è dinamico ed è quindi più facile essere limpidi! L’Italia ci sta arrivando ed è il segno che finalmente il lavoro non è solo dovere, ma anche un luogo dove star bene”. “La crescita del numero delle dimissioni risulta fortemente guidata dalle possibilità di ricollocazione offerte dal mercato, conferma anche Tiziano Barone, direttore di Veneto Lavoro: “Notiamo che, mediamente, entro pochi giorni il dimissionario ha già una nuova occupazione che evidentemente soddisfa le sue aspettative”. La pandemia, così come altri fattori esterni al mercato del lavoro, hanno comportato una maggiore attenzione alla conciliazione tra tempi di vita e di lavoro, soprattutto nei giovani. “Anche nei Centri per l’impiego stiamo registrando una sempre minore attrattività verso l’aspetto economico, se questo va a discapito della qualità della propria esistenza. Oggi alcuni impieghi non trovano candidati, anche a fronte di stipendi elevati, perché hanno un impatto più gravoso sulla quotidianità in termini di orari, flessibilità, tutele, e più in generale in termini di welfare, ovvero sul livello di benessere del lavoratore e della sua famiglia, che va al di là della sola retribuzione”, conferma Barone.
L’articolo Lavoro: in Veneto 66mila dimissioni in 4 mesi. “Un’ottima notizia”, secondo Ricerca Felicità proviene da The Map Report.